giovedì 28 luglio 2011

Di come nacque l'odio per le commesse in genere

La prima volta che ho avuto la percezione di avere qualcosa di diverso è stato all’età di 10 anni circa. Ero un po’ in sovrappeso, quel poco che permetteva a mia madre di avere scompensi cardiaci al pensiero che tutte le altre bambine erano in modalità “manico di scopa” mentre io mi avvicinavo sempre più al modello “omino michelin”.
In particolare questi scompensi subentravano quando dovevo comprare qualcosa da indossare.
La cosa peggiorava se dovevo trovare qualcosa per una cerimonia perché doveva essere qualcosa di elegante, delicato, fine, rosa, principesco, raffinato. In pratica qualcosa che io non ero, non sono ora e molto probabilmente non sarò mai.
Mia madre ha combattuto per anni contro la mia ciccia e contro la mia mascolinità.
A tutt’oggi non capisco se le dia più fastidio la mia collezione di rotolini o il mio atteggiamento truculento e cinico che poco si adatta alla sua idea di figlia ideale. Di questo, però, ve ne parlerò in un altro capitolo.
Ricordo ancora quella volta, in un negozio molto chic del mio paese, in cui mia madre cercò disperatamente degli abiti da farmi indossare ad un matrimonio. Ossignur, come dimenticare lo sguardo scocciato e infastidito della commessa e il senso di imbarazzo di mia madre. A me la cosa non importava, avrei imparato poi negli anni a sentirmi mortificata. In quel momento ero solo scocciata dalla contrattazione e dal cambio d’abiti continuo. L’unico dispiacere che provavo era verso mia madre perché la vedevo disperata e non sapevo come aiutarla. Provando gli abiti, cercavo di tenere la pancia in dentro il più possibile per farmi entrare quegli straccetti che mi proponevamo ma, si sa, il volume non sparisce, al più si ridistribuisce…
In un’altra occasione, pur di farla contenta, entrai in un camerino e provai un pantalone che non mi sarebbe entrato nemmeno se mi avessero fatto una liposcultura al volo. Indossai il migliore dei miei sorrisi e uscii dicendo: “mi va benissimo, mi piace!”
Lei insistette per vedermelo addosso ma cominciai a piagnucolare e a rompere le scatole dicendoche mi ero scocciata e volevo andare a casa. Inutile dire che quel pantalone non lo indossai mai, a casa si arrabbiò come una furia ma almeno le evitai lo strazio in negozio.
Con l’avvento dei cataloghi, la cosa diventò più semplice. Ordinavo sfogliando un giornale e mi accontentavo di quello che arrivata. La merce, tra la descrizione in catalogo e la consegna, subiva una trasformazione tale che, ogni volta, mi ritrovavo con un cencio in mano avente dicitura cotone 100% che, a strizzarlo, stillava petrolio. Quello fu il periodo in cui capii che non è tutt’oro quel che luccica e che la gente, pur di vendere, dice un po’ quel che cazzo gli pare.
Anche per l’ordine dal catologo permaneva il problema taglia. Non essendo standardizzate, se ordinavi taglia orca assassina ti poteva capitare un pantalone taglia poker d’ossi o una gonna modello tendone da circo. Quello, infatti, fu il periodo in cui imparai a cucire.
E così pian pian mi affrancai da mia madre e lei si rassegnò a vedermi vestita alla membro di segugio.
Non fu così facile però. Prima della mia affrancatura, stanca di questi tira e molla ogni qual volta dovevo comprare qualcosa, mia madre cominciò il lungo pellegrinaggio verso dietologi e ciarlatani vari che hanno contribuito a far di me una cicciona recidiva, complessata, disillusa e con vari scompensi ormonali. Ci tengo a precisare che parlo di mia madre ma non ho nulla contro di lei, ha fatto di tutto per rendermi migliore, per quella che era la sua idea di essere migliore. Tutto il mio disprezzo va a quella caterva di ciarlatani e professoroni, e spesso le due categorie si confondevano, che ho incontrato sulla mia strada.
Ma questo ve lo racconto la prossima volta…Non immaginate a cosa si riduce a fare qualcuno per poter perdere del peso…

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